I recenti accadimenti in Francia – dove alcuni comuni hanno ha vietato l’utilizzo del burkini alle donne musulmane in spiaggia ottenendo l’approvazione del premier Manuel Valls – ha riportato in auge anche in Italia il dibattito circa il dress code per le donne di religione islamica e l’acceso confronto su cosa si possa o meno accettare, su cosa sia lecito o meno vietare e in sostanza sul valore attribuibile ad un abito in questo preciso momento storico.

Secondo una tendenza che ormai è prassi comune su qualsiasi argomento, il dibattito si è praticamente subito arenato su uno sterile “burkini sì/ burkini no”, in una gara tutta social in cui si sfidano tifoserie da tastiera accanite e alquanto prevedibili nelle proprie argomentazioni: il fronte del sì asserisce che anche le suore hanno tunica e velo in spiaggia, che il valore di una donna non si misura dal numero di centimetri scoperti o coperti, che in ogni caso si tratta dell’ennesima battaglia combattuta dagli uomini sul corpo delle donne. Il fronte del no, dal canto suo, teorizza problematiche di igiene e timori di colonizzazione. Insomma, niente di nuovo sul fronte occidentale.

Se non fosse che l’attuale situazione economica e sociale richiede – pure su un tema apparentemente innocuo come la scelta di un costume da bagno – un approccio che tocchi più livelli di profondità. Perché, è chiaro, la questione in gioco non è soltanto l’indossare o meno il burkini in spiaggia: se così fosse, si potrebbe risolvere con un banalissimo “ciascuno indossi ciò che vuole”, e tanti saluti. Ma qui la questione è un’altra, ben più articolata.

La questione riguarda infatti ciò che il burkini rappresenta oggi, nell’Europa dei diritti e delle democrazie, delle battaglie e delle tutele, l’Europa forse ormai fiacca e prona, che si sta ripiegando sui suoi punti di forza, di fatto snaturandoli. Ciò che era libertà si sta trasformando in libertà di accettare le illibertà. Ciò che erano i diritti si stanno trasformando in diritto di accettarne la negazione per fette sempre più ampie della popolazione. Ciò che sarebbe dovuto essere integrazione si sta rivelando essere frammentazione e prevaricazione, accettazione della violazione di ciò che avevamo imparato a pretendere come laicamente sacro: in primis, la parità tra uomo e donna. La libertà femminile, in tutti i campi.

Il problema non è indossare o meno il burkini di per sé. È il fatto che questa “battaglia” la stia combattendo l’Islam più oscurantista e ambiguo spacciandola per difesa di un diritto, utilizzando quindi una categoria di pensiero che ci è propria per avvallare un “diritto” che di fatto si configura come l’accettazione di una implicita inferiorità che invece non dovrebbe essere accettata, non più, non qui: quella della donna che deve o “vuole” coprirsi, laddove invece un uomo non lo deve fare mai. E dove, aggiungerei, con quel “vuole” si potrebbe aprire una parentesi pressoché infinita sul reale valore della volontà quando si è inseriti in una forma mentis collettiva che sottomette la libertà del singolo individuo a quella di un dio che può dettare legge anche sulla terra. 

I recenti casi di ambiguità da parte anche di musulmani eletti in amministrazioni locali potrebbero essere emblematici. Per discutere di burkini, oggi, è quindi necessario accettare il fatto che si sta parlando non di una lotta per l’affermazione della libera scelta delle donne in quanto individui, ma di una battaglia che ha (anche) connotati politici e culturali. Non perché tutte le donne che lo “vogliono” o devono indossare siano politicizzate, ma perché è divenuto volenti o nolenti il simbolo di un Islam che vuole anche fare e che fa politica. A tal riguardo, per chiudere, mi permetto di citare quanto sottolineato da Maryan Ismail – attivista milanese, musulmana di origine somala e recentemente fuoriuscita dal Pd meneghino – in un post su Facebook:

Non è in discussione la libertà di scelta delle donne. Il burkini è solo la punta dell’iceberg di un’islamizzazione fondamentalista che tenta di imporre la sua visione. Più questa componente dell’Islam si fa evidente, pervasiva, direi popolare, più acquisisce potere contrattuale con le istituzioni proponendosi come modello unico religioso. Più acquisisce potere contrattuale con le istituzioni, più si rende idoneo a ricevere finanziamenti dai paesi esteri. Per esempio la moschea di Milano sarebbe dovuta essere finanziata dal Qatar, Turchia e altri paesi. Con il risultato che i finanziatori avrebbero dettato quale Islam professare in moschea perché questi finanziamenti non sono mai di tipo filantropico. […] Riassumendo, più l’Islam ortodosso è pervasivo e visibile (e qui entra in gioco il burkini), più ha capacità di relazionarsi con le istituzioni proponendosi come modello unico di Islam, più riceve soldi dall’estero, più fa proselitismo per rendersi evidente. E qui il cerchio si chiude.